Stefano D'Arrigo scrive a pag 707 nell'Horcynus Horca:
L'autore gioca con tre figure, la solitudine, il gelo e quella parte di animo dove risiedono i sentimenti caldi chiamato cuore.
La solitudine viene rievocata più volte da Stefano D'Arrigo, come una bestia dietro l'angolo pronta ad uscir fuori e ad espandere il suo carico di gelo. Gelo penetrante, intenso, che scivolando si fa strada nelle corde dell'animo a ghiacciarle una ad una. Ghiacciata la prima, congela la seconda e così via, fino a trovarsi con un parte di se stessi ibernata.
A poco a poco ti ritrovi tu fermo solo soletto in un angolino, ibernato poco a poco. Vorresti alzarti, ma intorno trovi vuoto e solitudine. Provi a suonare le tue corde dell'animo, ma appena le tocchi con dita gelate, incallite e dalla sensibilità intorbidita, non senti sotto i polpastrelli la loro vitrea consistenza, la fragilità del nuovo stato in cui si sono evolute.
Si vorrebbero suonarle con ruvide e mezzi assiderati arti, ma si sgretolano tra le dita in tante piccole schegge di ghiaccio diffuse intorno. Si sparpagliano in ogni dove portando con se un briciolo di animo or ora smembrato. Si sprigiona un dolore profondo, intenso, nero, becero, sordo, che non da tregua, non conosce anestesia, non da calma o grazia, incalza come una marea nera che invade e rovina, guasta, scassa, smembra.
Vorresti gridarlo questo dolore, come una donna grida il dolore che prova nel dare la vita, ma l'urlo ti si gela in gola e se ne esce, fuoriesce un fievole gemito impercettibile tra le labbra.
Come un fischio di vento del nord che suona dei flauti di pan in bambù, appesi per un filo alla porta e cosparsi di ghiaccio, mentre il vento li smuove facendoli tintinnare tra di loro.
Brutta bestia la solitudine, cammina assieme al gelo, di cui ne è cane da compagnia..
Il silenzio deserto della 'Ricchia se lo sentiva dentro nel sangue, come ridotto in forma di un ago, un ago dalla punta di gelo rovente che gli camminava nel sangue e si muoveva verso il cuore, e il peggio era che se lo sentiva come sarebbe stato sempre così, sempre come in punto di trapassargli il cuore, sempre a quel punto.
L'autore gioca con tre figure, la solitudine, il gelo e quella parte di animo dove risiedono i sentimenti caldi chiamato cuore.
La solitudine viene rievocata più volte da Stefano D'Arrigo, come una bestia dietro l'angolo pronta ad uscir fuori e ad espandere il suo carico di gelo. Gelo penetrante, intenso, che scivolando si fa strada nelle corde dell'animo a ghiacciarle una ad una. Ghiacciata la prima, congela la seconda e così via, fino a trovarsi con un parte di se stessi ibernata.
A poco a poco ti ritrovi tu fermo solo soletto in un angolino, ibernato poco a poco. Vorresti alzarti, ma intorno trovi vuoto e solitudine. Provi a suonare le tue corde dell'animo, ma appena le tocchi con dita gelate, incallite e dalla sensibilità intorbidita, non senti sotto i polpastrelli la loro vitrea consistenza, la fragilità del nuovo stato in cui si sono evolute.
Si vorrebbero suonarle con ruvide e mezzi assiderati arti, ma si sgretolano tra le dita in tante piccole schegge di ghiaccio diffuse intorno. Si sparpagliano in ogni dove portando con se un briciolo di animo or ora smembrato. Si sprigiona un dolore profondo, intenso, nero, becero, sordo, che non da tregua, non conosce anestesia, non da calma o grazia, incalza come una marea nera che invade e rovina, guasta, scassa, smembra.
Vorresti gridarlo questo dolore, come una donna grida il dolore che prova nel dare la vita, ma l'urlo ti si gela in gola e se ne esce, fuoriesce un fievole gemito impercettibile tra le labbra.
Come un fischio di vento del nord che suona dei flauti di pan in bambù, appesi per un filo alla porta e cosparsi di ghiaccio, mentre il vento li smuove facendoli tintinnare tra di loro.
Brutta bestia la solitudine, cammina assieme al gelo, di cui ne è cane da compagnia..