Come le correnti di mare nello stretto.
Arrivato a pagina 900 circa dell'opera monumentale di Stefano D'Arrigo, nasce una nuova osservazione, stavolta sul suo modo di scrivere. L'autore presenta un modo di scrivere che, pur rimanendo se stesso, muta e cambia come le correnti nel mare.
Riesce ad inchiodare il lettore su di un argomento per pagine e pagine, come se fossi una nave in bonaccia, ferma, immobile. Non tira un alito di vento e la nave è fissa in un punto nel mare; il discorso non scorre, è fermo, perché descrive un concetto all'inverosimile.
Può darsi che si alzi rema (fenomeno di correnti che trasportano acqua di mare dallo Ionio al Tirreno e viceversa come fiumi ad intervalli regolari), per cui nonostante voghi/legga, essendo la corrente contraria al tuo procedere, D'Arrigo torna e ritorna sullo stesso concetto all'inverosimile per cui ti sembra di leggere lo stesso concetto decine di volte e ti senti ostacolato nel tuo verso di lettura. I soliti concetti si presentano e ripresentano, avanzi a fatica, ma sai che sei fermo perchè la rema/D'Arrigo si è alzata/o e tu non procedi.
Poi invece ci sono quei momenti in cui sembra di aver preso una piccola corrente secondaria, piccola-piccola, che guarda caso ti fa correre e scorrere sulle onde / pagine, con una tale velocità e naturalezza per cui ammiri la bellezza del paesaggio/storia.
Per me è questo lo stile di D'Arrigo, un mutare di correnti/stile all'interno del suo libro/mare.