La sera è scesa,
con le sue ombre lunghe su gli oggetti proiettate dalle luci dei
lampioni. Salgo in macchina e mi ritrovo solo, sembra che da un
momento all'altro Tu debba salire in vettura ed Io possa finalmente
guidare per entrambi. L'idea fa capolino nella coscienza,
quell'attimo per esprimersi ma non esser presa in considerazione,
ritorna nell'inconscio, fino a quando ora ne scrivo.
Capisco che non
arriverai e che non faremo più un tragitto di strada assieme, non ti
sentirò più ridere accanto a me o drizzar l'orecchio per cercare di
assecondare ogni tua proposta, anche la più bizzarra, qualunque cosa
pur di farti felice.
No, niente di tutto
questo.
Inserisco la chiave
nel cruscotto ed attendo lo spegnimento delle spie di sicurezza.
Accendo il motore e lo faccio riscaldare, nell'attesa monto il
frontalino della radio.
Gli altoparlanti
emettono suoni dell'ultima stazione scelta prima di scendere. A
volte musica, altre parole, altre canzoni.
Scelgo il CD da
ascoltare, ho bisogno di piangere e dovrò farmi strada attraverso
una coltre di macerie per permettere al mio ragazzo di versare
lacrime.
Il CD l'ho trovato,
ma è musica vecchia, potrà andar bene, ma non per molto, come si
sa, la musica è cambiata ed anche il Compact Disk.
La strada è
sgombera, dichiarata la mia volontà di impegnare la carreggiata con
la freccia, esco dalla piazzola di sosta e parto. Abbasso gli
occhiali, non voglio farmi vedere negli occhi, ho troppo pudore di me
e paura della reazione altrui alla personale sofferenza.
Avanzo nel traffico
della statale, immerso nei miei pensieri, fino al collo, fino alla
bocca, ma non è acqua di piscina per apnea, è marea nera fredda e
dolente, ancora un attimo e potrò immergermi senza pudore.
Meccanicamente raggiungo i caselli e la lingua di serpente grigio
asfalto sfumata di arancione si fa largo sotto di me.
Arriva una canzone,
intorno non c'è nessuno se non i mezzi che sfrecciano accanto alla
mia auto. Sono solo, nessuno può vedere, prendo il respiro ed un
guaito lungo, forte e profondo esce dalla bocca, un urlo di animale
ferito si direbbe.
I muscoli facciali
si contraggono in una maschera di dolore, tirata, lucente per le
lacrime, un arlecchino non sorridente, piangente. Piango ed invoco il
tuo nome, mi manchi. Giro intorno al vuoto lasciato dalla tua
mancanza, un cratere nero, oggi profondo, ampio e vuoto. Domani forse
una piccola buca da scansare.
Non ho ritegno,
piango a lacrime piene, amare, salate e calde. Cerco di strizzarmi
come una spugna, mentre i bei momenti condivisi passano dentro di me.
Piego la testa fin sopra il volante, il verde del tachimetro mi
ricorda di stare attento, ma non ho voglia di decelerare, anzi, ho
voglia di pigiare ed andare più veloce per lasciarmi tutto alle
spalle.