venerdì 6 marzo 2015

La menzogna di Cechov .

Una sessione on – line su un noto social network; mi imbatto in un link riguardante Cechov.
Lo leggo, una biografia del luminare russo, condita da una serie di sue massime, intime, profonde, da sussurrare piuttosto che gridare.
Mentre gli occhi scorrono sul testo, una frase in particolare mi colpisce:

Il pidocchio delle piante mangia l'erba, la ruggine il ferro, la menzogna l’anima .

Alla parola “pidocchio” delle piante mi si materializza in mente una cimice verde. 


Alla parola “ruggine”, balza alla coscienza il punto ruggine che sta corrodendo l'inferriata di casa. 

Leggendo la parola “menzogna” mi si apre un baratro. Vengo catapultato alla sera del 15 Ottobre, in Via delle Giudicarie. L'ha indossata fino ad ingurgitarla nelle viscere, fingendo, nascondendo, omettendo e negando le evidenze. 
 

Memorie .

Varie le tipologie .
Cammino sotto la pioggia, è battente e continua da stamane. Non accenna a calmare. Ho lasciato alle spalle Via delle Giudicarie, non vorrò rimettervi piede, sgattaiolo come un ratto tra vicoli e sentieri collaterali, non voglio esser visto, sono come un animale ferito che si trascina.
Le gambe mi portano verso il sentiero che percorremmo in bici assieme, altra fitta al cuore, ma è un dolore diverso, quasi tollerabile, ho recuperato un altro pezzo di me stesso e finalmente messo assieme a gli altri, è come se il dolore sempre presente diminuisse di intensità e finalmente provenisse da una parte viva e non più marcia da rimuovere.
Guadagno il poggio, mi siedo sulla panchina e come un padre che va a recuperare il proprio bimbo abbandonato, mi siedo, accanto a lui e lo guardo per del tempo. Non so quanto, forse sono secondi, minuti o decine di minuti, un beccheggiare sulla seduta intercede a intervalli in cui chiedo scusa al mio ragazzo per quello che gli ho fatto fare.
La pioggia batte e trapassa quasi le ossa, ma qualcosa si muove quando vedo nella panca e non vedo nessuno, un treno di allarme mi desta, mi sveglia, noto degli smile disegnati sui chiodi di fissaggio, uno di questi sorride. Ricordi di una sera in riva al mare dove invitai Rosa a guardare all'orizzonte dove c'era un piccolo puntino luminoso in mezzo al buio. Ecco, stavolta sono Io che ho visto il puntino luminoso all'orizzonte, un sorriso spezza il defluire delle lacrime, mi alzo e prosieguo.
La memoria fisica mi porta verso il supermarket, senza essermi scordato della farmacia, della posta e poi il cimitero. Ma queste sono altre storie.
Lasciato il campo di cipressi per cui mi sono aggirato come uno zombie per i vicoli, i corridoi, i viali e vialetti, come un moribondo, mi portavano le gambe, il cervello era sconnesso, non pensava, non ragionava, era come una finestra aperta per far entrare quel che proviene dal fondo, con pochi filtri e molti vomiti di ricordi.
Arrivo a Piazza Dante, non prima di aver intravisto dal finestrino, nel tram opposto al mio, una sagoma di schiena che avrei riconosciuto tra migliaia. E' freddo, gelo, umido, sono zuppo di acqua ed umidità. Mi perdo, cerco di usare il gps del cellulare, ma è così rodiro di acqua che a tentoni riesco ad avviarlo. Guadagno la piazza e dico una preghiera tra me e me. Scusandomi con me stesso e recuperando un altro pezzo di me stesso.
Mi perdo tra i vicoli fatti di parcheggi di auto lambenti case squadrate e dalle facciate impeccabili, alberi piangenti di foglie e pioggia, arrivo non so come all'ufficio dell'USL. E' un tuffo nel nero del dolore. Forse una bici appoggiata in rastrelliera mi dice che “saresti” lì. Forse non ho voglia di star troppo lì. Me ne vado, le gambe mi portano tra vicoli e colonnati verso il Sentierone, dove camminammo davanti a quelli delle castagne.
La stessa sensazione di prima, cammini per inerzia, sono le gambe che ti portano, spinte da una memoria impregnatasi sui muscoli, le ossa, le articolazioni, le viscere, i singoli neuroni degli archi riflessi si spremono per sputare via il dolore. E' il tuo corpo che si desta, ricorda in ogni sua piccola cellula e ti porta, tu sei spettatore semi-attivo fino a quando non raggiungi la destinazione ed è come se si togliesse il pilota automatico e torni a guidare il tuo corpo.
Al Sentierone non ce la faccio più, sono bagnato fradicio e lercio. Ho freddo e fame, basta, si fa rotta per Brescia.
Ma nei giorni a seguire la sensazione ritornerà, quando camminerò per città alta, alla ricerca di quella bella luce per far foto, per ripercorrere le vie dove passo dopo passo mi facevi a pezzi con il machete e ti cibavi di me, mentre Io con un sorriso ebete ti seguivo. Ma anche questa è un'altra storia.

Sonni


Sssh, stanno riposando .
Ciò che abbiamo vissuto in quei giorni si è incallito dentro. Credevo non potesse più riaffiorare alla mente. Poi quella foto, ha destato una parte di me che credevo addormentata per sempre.
Odî volontariamente sopiti, malinconie, sogni, speranze. 

La volpe .

E l'uva .
Richiamare il senatore e mandarlo a farsi friggere o far finta di niente e cercare di conciliare le due cose con il minor male. Oppure tentare e in  caso che nessuna idea valida venisse alla mente, allora rinunciare adducendo l'onestà intellettuale che non consente il compromesso.
La volpe e l'uva.
Merda...

Le cose si fanno in due .

La forbice taglia perché le lame sono due.
Dal periodo di merda lasciato alle spalle ho capito una cosa, forse il senso a questa montagna di merda scalata nei rapporti umani sta nel fatto che alcune cose, vedi quelle di una coppia ( parlare, scrivere, sentire, amare, uscire, litigare, capire, intendere, baciare, mangiare, vivere etc.)  si fanno in due, se no non si fanno.
La forbice taglia perché le due lame sono parallele, vicinissime ma indipendenti l'una dall'altra, convergono in un punto ed assieme tagliano: la carta, i gambi dei fiori, la plastica, il cartone, i fili etc. Assieme funzionano e realizzano, da sole No.
L'ho capito dalla storia chiusa con Ale, dove alla fin fine ero rimasto solo e quello che si faceva in due non si poteva più fare.
L'ho capito dalla storia chiusasi con Rò, dove ero rimasto a crederci da solo e quello che si faceva o si sarebbe potuto fare assieme è finito come petali di mandorlo portati via dal vento.
L'ho capito quando ho provato a frequentare delle persone disinteressate, anche ex-Amici, ma essendo solo nel crederci, anche in questo caso le cose da solo si potevano fare e gli altri ne usufruivano, quando c'era da fare almeno in due, la cosa/le cose non si realizzava/vano.
Il fondo l'ho toccato con Antonietta, 3 mesi per un caffè ancora da giungere. Poi il tempo di una pizza e neanche questa arrivava. Una serata chiesta di lunedì e presentatami di Venerdì con la frase “Te l'avevo detto”, il telefono staccato chiamando Lei ed Antonietta che non rispondono per vedersi.
A quel punto dissi “Basta!”, se avessi avuto un problema con una persona glielo avrei detto, infatti le scrissi “E' difficile realizzare le cose se si è soli”, da allora silenzio tomba, se non degli auguri di buon Natale.
Questo principio lo impiegai con An. Visite a lavoro promesse e non arrivavano, arrivavano improvvise, uscimmo un pomeriggio e finì da uomo con caramelle.
Una sera spuntò al locale, chiedendomi di parlarle, in compagnia di un'amica con il compito da fungere da terzo. La ascoltai, capii che aveva un gran casino in testa, una storia tirata avanti che attendeva qualcuno per finirgliela, un rapporto con se stessa altalenante, in pratica cercava qualcuno a cui scaricare tutto questo.
Incrociati gli occhi (aveva uno strabismo di Venere) le dissi “Vedo che i compiti a casa ancora non li hai fatti. Vorresti che te li facessi Io?”. Silenzio-assenso. Proseguii “Fatti risentire quando li avrai fatti.” Da allora scomparsa, fino a quando non si ripresentò sul social network per chiedere amicizia.
L'idea l'avevo capita bene e l'avevo messa in pratica.