mercoledì 19 febbraio 2014

In auto .

 
La sera è scesa, con le sue ombre lunghe su gli oggetti proiettate dalle luci dei lampioni. Salgo in macchina e mi ritrovo solo, sembra che da un momento all'altro Tu debba salire in vettura ed Io possa finalmente guidare per entrambi. L'idea fa capolino nella coscienza, quell'attimo per esprimersi ma non esser presa in considerazione, ritorna nell'inconscio, fino a quando ora ne scrivo.
Capisco che non arriverai e che non faremo più un tragitto di strada assieme, non ti sentirò più ridere accanto a me o drizzar l'orecchio per cercare di assecondare ogni tua proposta, anche la più bizzarra, qualunque cosa pur di farti felice.
No, niente di tutto questo.
Inserisco la chiave nel cruscotto ed attendo lo spegnimento delle spie di sicurezza. Accendo il motore e lo faccio riscaldare, nell'attesa monto il frontalino della radio.
Gli altoparlanti emettono suoni dell'ultima stazione scelta prima di scendere. A volte musica, altre parole, altre canzoni.
Scelgo il CD da ascoltare, ho bisogno di piangere e dovrò farmi strada attraverso una coltre di macerie per permettere al mio ragazzo di versare lacrime.
Il CD l'ho trovato, ma è musica vecchia, potrà andar bene, ma non per molto, come si sa, la musica è cambiata ed anche il Compact Disk.
La strada è sgombera, dichiarata la mia volontà di impegnare la carreggiata con la freccia, esco dalla piazzola di sosta e parto. Abbasso gli occhiali, non voglio farmi vedere negli occhi, ho troppo pudore di me e paura della reazione altrui alla personale sofferenza.
Avanzo nel traffico della statale, immerso nei miei pensieri, fino al collo, fino alla bocca, ma non è acqua di piscina per apnea, è marea nera fredda e dolente, ancora un attimo e potrò immergermi senza pudore. Meccanicamente raggiungo i caselli e la lingua di serpente grigio asfalto sfumata di arancione si fa largo sotto di me.
Arriva una canzone, intorno non c'è nessuno se non i mezzi che sfrecciano accanto alla mia auto. Sono solo, nessuno può vedere, prendo il respiro ed un guaito lungo, forte e profondo esce dalla bocca, un urlo di animale ferito si direbbe.
I muscoli facciali si contraggono in una maschera di dolore, tirata, lucente per le lacrime, un arlecchino non sorridente, piangente. Piango ed invoco il tuo nome, mi manchi. Giro intorno al vuoto lasciato dalla tua mancanza, un cratere nero, oggi profondo, ampio e vuoto. Domani forse una piccola buca da scansare.
Non ho ritegno, piango a lacrime piene, amare, salate e calde. Cerco di strizzarmi come una spugna, mentre i bei momenti condivisi passano dentro di me. Piego la testa fin sopra il volante, il verde del tachimetro mi ricorda di stare attento, ma non ho voglia di decelerare, anzi, ho voglia di pigiare ed andare più veloce per lasciarmi tutto alle spalle.

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