Quando venne il turno per Gaia di creare la Sicilia, delegò il compito a Vulcano. Il dio essendo la sua prima creazione, desiderava realizzarla bene. Per farsi aiutare nell’impresa forgiò un Ciclope di ferro e massi, dato che le cose da fare erano tante e aveva bisogno di aiuto.
Vulcano ed il Ciclope costruirono per intero l’isola, senza risparmiare nulla, ne forza e ne volontà, ne doni e ne meraviglie. Vedendo che il lavoro riusciva bene, Vulcano decise di edificare la sua officina nell’isola e costruì l’Etna. Visto il buono e servile lavoro fatto dal Ciclope, il dio decise di costruirgli una sua fucina personale, così che gli creò l’isola di Vulcano.
Giunta all’altro capo dell’isola la notizia di un’ isoletta tutta sua, il Ciclope tutto contento iniziò ad incamminarsi verso la sua futura dimora. Ma la creatura fu costruita male e troppo sfruttato nei giorni addietro, Vulcano lo impiegò in eccessivi lavori, dove ingenti energie furono consumate.
Lungo il sentiero verso la sua futura dimora, il Gigante iniziò a sentirsi male. Più proseguiva per la meta e più sentiva le forze venirgli meno, le gambe diventare sempre più dure, stanche. Camminava con difficoltà.
Arrivato in prossimità di Messina, le gambe lo abbandonarono, costringendolo a sdraiarsi per terra. Non ebbe il tempo di adagiarsi, che cadde per terra scuotendo l’isola per intero. Gli arti lo abbandonarono, immobili, morti, ma la volontà di raggiungere la sua meta non lo abbandonò, ed iniziò così a strisciare per terra.
Terremoti su terremoti si avvicendavano ad ogni spanna coperta. Le su possenti braccia, trascinavano il suo grande corpo, ormai in sfracello e decadimento.
Arrivato a Milazzo, non riusciva quasi più a trascinarsi dietro le gambe in roccia e pietra, piene di terra. Nello strisciare per terra, mucchi della migliore terra siciliana gli si erano attaccati sugli arti morti, ora diventati enormi.
Mancava poco per raggiungere la meta, doveva giungere al primo scoglio delle Eolie, il Capo di Milazzo e poi il gioco era fatto. Ma un piccolo lembo di mare separava l’isoletta dalla terra ferma. Raccolte le ultime forze, il Ciclope sprofondò nel mar Tirreno per raggiungere a nuoto il Capo. Appena le sue gambe morte ricolme di terra toccarono il mare, si liberarono subito del peso, così che dove prima era mare, ora era terra. La lingua di terra che il Ciclope si lasciò dietro per arrivare al Capo, divenne una vasta pianura, fatta della migliore terra sicula ed infusa della forza del Ciclope.
Le forze, lo abbandonavano sempre di più, ogni metro che lo avvicinava alla sua dimora erano le sue forze che lo abbandonavano per sempre. Per guadare l’ultimo tratto di mare, perse tutte le forze, ed arrivò sfinito al Capo di Milazzo non riuscendo più a strisciare oltre.
Preso dallo sconforto della vita che lo abbandonava e di non poter raggiungere la sua dimora, appoggiò la testa su un masso, in modo da poter vedere in lontananza l’isola di Vulcano.
Mentre con l’occhio stappava l’isola per portarla a se, le possenti mani afferrarono e si saldarono sulla terra e le rocce. Con gli occhi fissi sul’isola di Vulcano, il ciclope spirò l’ultimo alito di vita.
Dalle gambe striscianti nacque la piana di Milazzo, dalla sua schiena ne risultò il Capo di Milazzo. La testa formò la località Pietre Rosse, mentre le sue dita ancora oggi stringono i massi per l’ultimo salto che lo porterà alla sua dimora promessa, l’Isola di Vulcano.
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