Varie le tipologie . |
Cammino sotto la pioggia, è battente e continua da stamane. Non accenna a calmare. Ho lasciato alle spalle Via delle Giudicarie, non vorrò rimettervi piede, sgattaiolo come un ratto tra vicoli e sentieri collaterali, non voglio esser visto, sono come un animale ferito che si trascina.
Le gambe mi portano verso il sentiero che percorremmo in bici assieme, altra fitta al cuore, ma è un dolore diverso, quasi tollerabile, ho recuperato un altro pezzo di me stesso e finalmente messo assieme a gli altri, è come se il dolore sempre presente diminuisse di intensità e finalmente provenisse da una parte viva e non più marcia da rimuovere.
Guadagno il poggio, mi siedo sulla panchina e come un padre che va a recuperare il proprio bimbo abbandonato, mi siedo, accanto a lui e lo guardo per del tempo. Non so quanto, forse sono secondi, minuti o decine di minuti, un beccheggiare sulla seduta intercede a intervalli in cui chiedo scusa al mio ragazzo per quello che gli ho fatto fare.
La pioggia batte e trapassa quasi le ossa, ma qualcosa si muove quando vedo nella panca e non vedo nessuno, un treno di allarme mi desta, mi sveglia, noto degli smile disegnati sui chiodi di fissaggio, uno di questi sorride. Ricordi di una sera in riva al mare dove invitai Rosa a guardare all'orizzonte dove c'era un piccolo puntino luminoso in mezzo al buio. Ecco, stavolta sono Io che ho visto il puntino luminoso all'orizzonte, un sorriso spezza il defluire delle lacrime, mi alzo e prosieguo.
La memoria fisica mi porta verso il supermarket, senza essermi scordato della farmacia, della posta e poi il cimitero. Ma queste sono altre storie.
Lasciato il campo di cipressi per cui mi sono aggirato come uno zombie per i vicoli, i corridoi, i viali e vialetti, come un moribondo, mi portavano le gambe, il cervello era sconnesso, non pensava, non ragionava, era come una finestra aperta per far entrare quel che proviene dal fondo, con pochi filtri e molti vomiti di ricordi.
Arrivo a Piazza Dante, non prima di aver intravisto dal finestrino, nel tram opposto al mio, una sagoma di schiena che avrei riconosciuto tra migliaia. E' freddo, gelo, umido, sono zuppo di acqua ed umidità. Mi perdo, cerco di usare il gps del cellulare, ma è così rodiro di acqua che a tentoni riesco ad avviarlo. Guadagno la piazza e dico una preghiera tra me e me. Scusandomi con me stesso e recuperando un altro pezzo di me stesso.
Mi perdo tra i vicoli fatti di parcheggi di auto lambenti case squadrate e dalle facciate impeccabili, alberi piangenti di foglie e pioggia, arrivo non so come all'ufficio dell'USL. E' un tuffo nel nero del dolore. Forse una bici appoggiata in rastrelliera mi dice che “saresti” lì. Forse non ho voglia di star troppo lì. Me ne vado, le gambe mi portano tra vicoli e colonnati verso il Sentierone, dove camminammo davanti a quelli delle castagne.
La stessa sensazione di prima, cammini per inerzia, sono le gambe che ti portano, spinte da una memoria impregnatasi sui muscoli, le ossa, le articolazioni, le viscere, i singoli neuroni degli archi riflessi si spremono per sputare via il dolore. E' il tuo corpo che si desta, ricorda in ogni sua piccola cellula e ti porta, tu sei spettatore semi-attivo fino a quando non raggiungi la destinazione ed è come se si togliesse il pilota automatico e torni a guidare il tuo corpo.
Al Sentierone non ce la faccio più, sono bagnato fradicio e lercio. Ho freddo e fame, basta, si fa rotta per Brescia.
Ma nei giorni a seguire la sensazione ritornerà, quando camminerò per città alta, alla ricerca di quella bella luce per far foto, per ripercorrere le vie dove passo dopo passo mi facevi a pezzi con il machete e ti cibavi di me, mentre Io con un sorriso ebete ti seguivo. Ma anche questa è un'altra storia.
Le gambe mi portano verso il sentiero che percorremmo in bici assieme, altra fitta al cuore, ma è un dolore diverso, quasi tollerabile, ho recuperato un altro pezzo di me stesso e finalmente messo assieme a gli altri, è come se il dolore sempre presente diminuisse di intensità e finalmente provenisse da una parte viva e non più marcia da rimuovere.
Guadagno il poggio, mi siedo sulla panchina e come un padre che va a recuperare il proprio bimbo abbandonato, mi siedo, accanto a lui e lo guardo per del tempo. Non so quanto, forse sono secondi, minuti o decine di minuti, un beccheggiare sulla seduta intercede a intervalli in cui chiedo scusa al mio ragazzo per quello che gli ho fatto fare.
La pioggia batte e trapassa quasi le ossa, ma qualcosa si muove quando vedo nella panca e non vedo nessuno, un treno di allarme mi desta, mi sveglia, noto degli smile disegnati sui chiodi di fissaggio, uno di questi sorride. Ricordi di una sera in riva al mare dove invitai Rosa a guardare all'orizzonte dove c'era un piccolo puntino luminoso in mezzo al buio. Ecco, stavolta sono Io che ho visto il puntino luminoso all'orizzonte, un sorriso spezza il defluire delle lacrime, mi alzo e prosieguo.
La memoria fisica mi porta verso il supermarket, senza essermi scordato della farmacia, della posta e poi il cimitero. Ma queste sono altre storie.
Lasciato il campo di cipressi per cui mi sono aggirato come uno zombie per i vicoli, i corridoi, i viali e vialetti, come un moribondo, mi portavano le gambe, il cervello era sconnesso, non pensava, non ragionava, era come una finestra aperta per far entrare quel che proviene dal fondo, con pochi filtri e molti vomiti di ricordi.
Arrivo a Piazza Dante, non prima di aver intravisto dal finestrino, nel tram opposto al mio, una sagoma di schiena che avrei riconosciuto tra migliaia. E' freddo, gelo, umido, sono zuppo di acqua ed umidità. Mi perdo, cerco di usare il gps del cellulare, ma è così rodiro di acqua che a tentoni riesco ad avviarlo. Guadagno la piazza e dico una preghiera tra me e me. Scusandomi con me stesso e recuperando un altro pezzo di me stesso.
Mi perdo tra i vicoli fatti di parcheggi di auto lambenti case squadrate e dalle facciate impeccabili, alberi piangenti di foglie e pioggia, arrivo non so come all'ufficio dell'USL. E' un tuffo nel nero del dolore. Forse una bici appoggiata in rastrelliera mi dice che “saresti” lì. Forse non ho voglia di star troppo lì. Me ne vado, le gambe mi portano tra vicoli e colonnati verso il Sentierone, dove camminammo davanti a quelli delle castagne.
La stessa sensazione di prima, cammini per inerzia, sono le gambe che ti portano, spinte da una memoria impregnatasi sui muscoli, le ossa, le articolazioni, le viscere, i singoli neuroni degli archi riflessi si spremono per sputare via il dolore. E' il tuo corpo che si desta, ricorda in ogni sua piccola cellula e ti porta, tu sei spettatore semi-attivo fino a quando non raggiungi la destinazione ed è come se si togliesse il pilota automatico e torni a guidare il tuo corpo.
Al Sentierone non ce la faccio più, sono bagnato fradicio e lercio. Ho freddo e fame, basta, si fa rotta per Brescia.
Ma nei giorni a seguire la sensazione ritornerà, quando camminerò per città alta, alla ricerca di quella bella luce per far foto, per ripercorrere le vie dove passo dopo passo mi facevi a pezzi con il machete e ti cibavi di me, mentre Io con un sorriso ebete ti seguivo. Ma anche questa è un'altra storia.
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