È passata una settimana dal Viaggio. Tante le idee ed i pensieri che si sono fatte strada. Una cosa è certa, per fare quella pazzia un briciolo di coraggio c’è voluto, se no me ne restavo fermo e buono nella mia isola,
Attesa lunga e snervante nello spiazzale antistante la stazione di Messina, tra meretrici costrette a battere e volanti della polizia con i lampeggianti accesi, con sguardi truci del conducente ad ogni giro dell’isolato.
Telefonate schifosamente sincere ricambiate con odio feroce, accompagnate da cinismo da far venire il voltastomaco anche ad un cane putrefatto nella tomba. Fortuna che una persona amica mi ha dato un po’ di conforto.
Arriva l’autobus, i bagagli caricati in fretta e nessuno ad augurarti: buon viaggio. I biglietti staccati senza un benvenuto a bordo, ma con uno “Sgrunt”.
Il posto prenotato, faticosamente conquistato con il vicino di viaggio, alla fine della notte diventato compagno di viaggio: un cinese dall’accento Catanese che se ne fotteva di tutto e di tutti.
Stazioni di rifornimento sconosciute a cui frettolosamente adempiamo ai nostri bisogni fisiologici, per poi riprendere la strada in una notte troppo fredda sulla mia pelle e dentro al mio cuore.
Paolo che tossisce a più riprese dopo ogni sigaretta fumata avidamente, non capisce che ha una gola irritata da giorni, ma noncurante ci fuma sopra. Gli do una caramella balsamica e la tosse sembra calmarsi, il sonno può riprendere sul sedile.
È troppo presto per dire “Riposo”, la signora del sedile accanto vomita a più riprese quello che ha mangiato. La prima volta finisce per terra, la seconda pure, la terza arriva in un sacchetto, la quarta ormai finisce in plastica, la quinta.. non c’era più nulla da buttare fuori. Il sonno può riprendere tra l’odore del cibo mezzo digerito ed il lezzo degli acidi gastrici.
La città dove durante la seconda guerra mondiale la flotta italiana fu pesantemente bombardata alla fonda, si apre con il suo porto immenso, sembra un lago. La notte ne copre le bruttezze, mentre il bus quatto – quatto se ne allontana.
Città studiate solo sui libri, pianure interminabili di ulivi e terra arida che si estendono a bordo strada e che sembrano inghiottirsi la statale. Il telefono che non da segni di vita.
Superiamo la seconda fermata, scendono un po’ di persone, volti conosciuti li attendono appena mettono piede per terra. Arriviamo alla terza fermata, tutta la famigliola ( nonni, madre e la bimbetta di 3 anni piena di riccioli dorati ) che mi aveva fatto compagnia per il viaggio, regalandomi qualche sorriso, scendono, un loro caro li attende. Superiamo la quarta stazione e scendono quasi tutti, accolti tra baci e abbracci di chi li attende. Restiamo poche anime sul mezzo, mentre cala un silenzio di piombo sulle nostre teste e dentro al mio cuore. Arriviamo all’ultima fermata, il capolinea, che è anche la mia, qui stavolta mi tocca scendere.
Scendo con un po’ di reticenza, paura di farmi male, perché forse so cosa mi aspetta. Prendo il borsone, controllo le cialde dei cannoli, qualche testa di cazzo ci ha messo sopra la borsa e ne ha rotte un paio. Controllo la ricotta, sembra tutto a posto, il frigorifero da viaggio comprato il giorno prima tiene bene.
Metto lo zaino in spalla, prendo il borsone nelle mani e mi guardo attorno. Scruto a destra: non c’è nessuno che mi aspetta. Mi guardo a sinistra: Nessuno sguardo amico che mi attende. Guardo davanti: c’è la fiancata del bus. Raccolgo le cose e ingenuamente supero il mezzo, per vedere se qualcosa si cela dietro ad esso, ma… Non c’è nessuno.
Raccolti i miei quattro stracci e spaccato in mille pezzi il cuore, chiedo all’autista: dove è la fermata del bus di città?
A parte una alzata di spalle non mi viene detto nulla… Benvenuto ‘ntù lu Salentu.
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