domenica 29 novembre 2009

Il soldato Ivan .



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 Manuela Scarpellini
Il vero volto del soldato Ivan (l'Armata Rossa)
tratto da: Il Giornale, 1.11.2005.

La fine del ventesimo secolo ha spazzato via molti miti riguardanti la seconda guerra mondiale. Non solo ha confermato la violenza dei regimi totalitari, ma ha anche sfrondato la retorica intorno al comportamento degli eserciti alleati, sottolineando le ambiguità e le incertezze dei leader democratici, i loro silenzi (ad esempio verso le persecuzioni razziali e i genocidi di massa), gli errori tattici e strategici. Solo un mito resiste ancora, almeno in Russia: quello del valore e dell'abnegazione dell'Armata rossa, che seppe combattere e vincere in condizioni difficilissime e a prezzo di immani sacrifici la «Grande Guerra Patriottica», come è tuttora chiamata la seconda guerra mondiale. La propaganda ha costruito un'immagine eroica del «soldato Ivan»: è un uomo semplice, ma allo stesso tempo forte e coraggioso, capace di guardare in faccia la morte senza paura e di sacrificarsi senza esitazioni per gli ideali della patria. E ancora oggi, nella Russia di Putin, i combattenti della seconda guerra mondiale sono un'indiscussa icona di grandezza.

Le ricerche di una storica inglese mettono per la prima volta in discussione quest'immagine. Catherine Merridale, docente di Storia contemporanea al Queen Mary college dell'Università di Londra, studia da anni i risvolti sociali e culturali della violenza. E in "Ivan's War: The Red Army 1941-1945" (ed. Faber and Faber, in uscita negli Stati Uniti presso Metropolitan Books) ha deciso di mettere sotto osservazione l'Armata rossa da un'insolita angolazione: non la storia di Stalin e dei suoi generali, ma quella dei soldati più umili. Ha perciò svolto ricerche in vari archivi russi per documentare la vita quotidiana al fronte (attraverso lettere di soldati, bollettini medici, rapporti segreti di polizia), e ha raccolto diari personali e testimonianze dei sopravvissuti, girando in lungo e in largo i luoghi dove si sono svolte le principali battaglie. E il quadro che ne esce è ben diverso.

Per cominciare, non esiste una caratterizzazione unica del combattente medio: l'esercito raccoglieva tutte le numerose nazionalità dell'Unione Sovietica (russi, ceceni, ucraini, uzbechi, georgiani, ecc.); soldati del tutto diversi tra loro, e spesso neppure in grado di parlare la lingua russa. Molti di questi coscritti provenivano da zone impervie e remote del Paese e giungevano al fronte del tutto impreparati, senza neppure conoscere le cause della guerra. E il libro registra molti episodi di discriminazione e di violenza a danno delle minoranze etniche.

Poi il soldato Ivan era a volte... il soldato Irina. L'Unione Sovietica fu infatti il primo Paese a utilizzare sistematicamente donne con compiti operativi. Dopo le disastrose campagne del 1941, che causarono migliaia di vittime, il governo sovietico reclutò moltissime donne (all'unica condizione che non avessero figli) con vari compiti, ad esempio come tiratrici scelte e piloti. Si formarono equipaggi di bombardieri tutti femminili (in particolare per azioni notturne) e non mancarono assi dell'aviazione come Lydia Litvyak, che abbatté 12 aerei tedeschi prima di essere abbattuta a sua volta nel 1943, a soli 22 anni. Furono ben 800mila le donne che combatterono durante il conflitto.

La vita di questi soldati al fronte era difficilissima e non sorprende che molti si dimostrassero tutt'altro che eroici. Le testimonianze raccolte parlano del terrore di fronte ai primi attacchi della formidabile macchina bellica tedesca, delle diserzioni di massa (soprattutto negli anni 1941-1942), della cronica mancanza di equipaggiamento, armi, e persino cibo (a cui sopperiva in parte un fiorente mercato nero), del perenne stato di ubriachezza. Ma ciò che colpisce nel libro è la paura degli spietati superiori, che consideravano i sottoposti solo carne da macello e punivano con estrema ferocia i disertori e persino le loro famiglie (il libro cita vari episodi di esecuzioni sommarie a scopo dimostrativo). Più di tutto, quasi al pari del nemico, era temuta la NKVD, l'onnipresente polizia politica di Beria, pronta a spiare e colpire con violenza ogni deviazione per obbligare i soldati a obbedire: quasi che lo Stato, scrive Merridale, combattesse una guerra contro il suo stesso popolo.

Gli anni della guerra furono lunghi e i caduti tra le file dell'Armata rossa milioni (in genere sepolti anonimamente in grandi fosse comuni). Eppure l'esercito tenne, i veterani rimasero ai loro posti e infine riguadagnarono le posizioni perdute. A cosa si dovette questo risultato? Forse alla fine la martellante propaganda aveva raggiunto il suo scopo? Assolutamente no. La storica britannica ritiene che ciò sia dovuto al fiorire di illusioni su un futuro migliore dopo la guerra; e, ancora di più, alla capacità di sopportazione del popolo russo, alla sua abitudine alla sofferenza e alla morte. Nel giro di due decenni la Russia aveva conosciuto rivoluzioni, guerre, carestie, persecuzioni politiche e deportazioni di massa; tutto questo aveva accentuato un tipico atteggiamento di fatalismo e rassegnazione di fronte a qualunque dramma: in ciò risiedeva il vero segreto della sopravvivenza.

Con queste armi, l'esercito sovietico giunse fino al cuore della Germania. E qui consumò la sua terribile vendetta. E' sorprendente, osserva ancora Merridale, come arrivati a questo punto i ricordi dei veterani si facciano evanescenti e confusi: la loro memoria sembra non serbare traccia delle violenze commesse su civili e militari, delle distruzioni e dei saccheggi, quasi fosse stata «filtrata» attraverso il mito ufficiale della guerra eroica (e pulita). Ma questa violenza ci fu ed ebbe più di una motivazione. C'era il desiderio di vendicarsi contro i nemici, ovviamente, ma anche la voglia di sfogare i sentimenti di rabbia e umiliazione patiti in anni di vessazioni da parte dei superiori e dei commissari politici; e persino la cieca soddisfazione di distruggere le ricchezze degli occidentali, constatato come questi -contrariamente alle immagini della propaganda- vivessero molto meglio dei sovietici.

Chi più pagò questa rabbia furono le donne tedesche, sottoposte a violenze di ogni tipo e stupri di massa, che appagavano, oltre una lunga astinenza sessuale, il desiderio di punire e umiliare il nemico sconfitto. Tristemente, coniarono per se stesse il termine di Freiwild, prede libere; non furono risparmiate neppure le donne polacche, ungheresi, ed addirittura russe, deportate in Germania come lavoratrici coatte.

Alla fine, al rientro in patria, ma in realtà già dai primi mesi del 1945, i veterani dell'Armata rossa trovarono un destino ben diverso da quello atteso. Stalin ordinò una purga nell'esercito che portò all'imprigionamento e alla morte di almeno 130mila fra soldati e ufficiali. Terminava così, in un ultimo bagno di sangue, l'esperienza reale di milioni di soldati; al suo posto, nasceva l'immagine eroica e positiva del «soldato Ivan».

Data inserimento: 30/09/2006 .




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